Carlo Levi, Quaderno a cancello

Carlo Levi, Quaderni a cancello

Carlo Levi, Quaderno a cancelli, Einaudi, 1979, pp. 324.

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Costretto per alcuni mesi in clinica nel 1973 per distacco della retina, Carlo Levi escogita un sistema per scrivere nel buio della cecità completa: una specie di telaio di fili orizzontali sovrapposto alla pagina, che guida la penna riga per riga. Seguendo il tracciato di questo «quaderno a cancelli», Levi ha scritto un gran numero di pagine in prosa e in versi: un vero diario ininterrotto in una scrittura che dilaga come una colata vulcanica, e che la morte sopravvenuta il 4 gennaio 1975 gli impedì di rileggere e di correggere. Nella letteratura italiana c'era stato un precedente famoso: D'Annunzio che scrisse il Notturno su striscioline di carta; ma questo Carlo Levi «notturno» è diverso da tutti, diverso anche da se stesso, dal Carlo Levi degli altri suoi libri.
Ciò che Levi descrive è la cecità: un mondo privo di tempo e privo di spazio, una notte «innuziale» in cui agli occhi senza vista pur sempre appaiono immagini, o meglio frammenti di immagini, residui della memoria, la «vista all'interno dell'occhio», una luna scrostata e polverulenta («forse la luna non è che la retina del cielo che ci guarda»), insomma quella che egli definisce «la grigia spiaggia dell'assoluta Futilità». Obbligato a contemplare senza interruzione questo paesaggio astratto e sfuggente, ad abitarlo e a dominarlo, Levi s'impegna a descriverlo minutamente, a trame tutte le analogie possibili, le associazioni di figure e di parole («le assonanze contano di più delle etimologie»), a proiettarvi barbagli di memoria che affiorano appena (il muro della fabbrica Diatto nella Torino della sua infanzia) o emblemi della sua condizione che gli si presentano tra il sonno e la veglia (il «guerriero birmano » ferito e l'avvoltoio che lo sovrasta).
Sono soprattutto i sogni che aprono le porte al recupero del ricordo perduto: un «fuori» ricco di personaggi amici e di ambienti, rischiarato da una pungente ironia.
Il risveglio senza luce non cancella i sogni ma in qualche modo li continua, spinge ad esplorarli più a fondo nella loro densità di racconto, e li intesse con le testimonianze d'un i «fuori» altrui, che il malato ricava dalle conversazioni col personale della clinica: ricordi d'un'infanzia paesana piemontese di Suor Lucia e peripezie d'emigrati sardi nelle memorie familiari di Suor Armanda; e l'incombere dell'efficienza germanica dell'infermiera Giuditta,  che evoca nel degente lo strazio d'Oloferne.
Il decorso della malattia, e il recupero d'uno spiraglio di vita segnano nel testo i passaggi dalle pagine più increspate d'angoscia ad altre più sollevate e limpide. La mente sistematrice e analogica di Levi riprende a mettere in ordine questo mondo sconvolto: le operazioni chi-rurgiche sono come le rivoluzioni che tagliano le parti morte d'una struttura ma per difendere i propri risultati sono costrette a ricorrere a dittature e censure («Pocchialino» che il malato deve portare). E il ragionamento metaforico passa alle rivoluzioni artistiche (poiché qui è la visione che è messa in causa), a Picasso, personaggio che s'affaccia a più riprese in queste pagine.
Il mondo e l'esistenza appaiono pieni di crepe all'occhio del cieco. Non è il Carlo Levi olimpico e solare, pago del suo sguardo sereno che esorcizza le forze oscure: queste pagine scritte nell'ombra testimoniano una trepi-dazione, un'amarezza, un'autoironia che contrastano con l'immagine più vulgata dell'autore, ma che forse sono state in lui sempre presenti. (La sua esperienza senatoriale soprattutto, vista dal letto d'ospedale, non gli sembra meritare che sarcasmi). Una nuova «spiegazione del mondo» prende forma, anche se questa scrittura che non può tornare su se stessa e correggersi pare voglia escludere ogni risposta definitiva e non c'è passaggio che non venga ridiscusso, riformulato, messo in forse.
«La storia del mondo è iscritta nella malattia assai meglio e più chiaramente e profondamente incisa che nella storia delle idee e delle istituzioni, assai più ingannevole e equivoca-bile e alterabile e sofisticabile che non quella dei tessuti, della carne e del sangue, del cuore e del respiro». Cosi Carlo Levi riflettendo sul diabete che è all'origine della sua cecità lo eleva a categoria tanto storica quanto di tipologia individuale, di destino. Il Diabetico è colui che non pone frontiere né difese tra sé e il mondo, che annulla la diversità, accetta, ingloba e trasforma l'universo nel proprio zucchero, e finisce vittima di questo eccesso di dolcezza. È Giobbe, è Booz, è Cristo. La contrapposizione tra il Diabetico e l'Allergico può essere la chiave per interpretare il mondo (dominato dagli Allergici), e Levi è tentato di riformulare in questi termini la sua favorita contrapposizione tra «contadini» e «luigini», elaborata nelle pagine del Cristo si è fermato a Eboli e dell'Orologio.